AMBIENTI 01

LA VEGETAZIONE  DELLE RUPI

Anche sulle pareti verticali e sulle rupi strapiombanti  trovano dimora   specie   vegetali  che,   pur   incontrando   condizioni ambientali  assai  severe  e  selettive,  riescono  a  sopravvivere aggrappate  alla roccia conferendole splendidi colori. Nonostante  in apparenza  l’ambiente rupestre  sia omogeneo, in realtà in relazione all’esposizione e alla morfologia della roccia, si realizzano condizioni ecologiche diverse. Le pareti esposte a sud sono soggette a forte riscaldamento, nei momenti  di intensa insolazione, alternati a periodi di gelo, durante  la notte o la stagione autunnale  e invernale. Le rupi esposte  a nord o in stazioni ombreggiate  non  risentono  di escursioni termiche altrettanto  accentuate,  ma  raggiungono minimi termici molto più bassi perché  ricevono le radiazioni solari in misura limita- ta.  Sulle  nicchie  o  sulle  minuscole  cenge  quasi  orizzontali vegetano  piante in grado di sfruttare i piccoli accumuli di ter- riccio che vi si depositano,  mentre  altre riescono ad ancorarsi saldamente alle fessure verticali. Altre ancora si collocano negli anfratti in cui continui stillicidi assicurano il mantenimento  del- l’umidità necessaria  alla sopravvivenza.

Sulla nuda roccia le piante a fiore non riescono ad insediarsi per le condizioni quasi proibitive. Qui i  veri pionieri sono  licheni e muschi che con la loro attività riescono, alla lunga, a dare origine ad un suolo primitivo, aprendo  così la strada per l’ingresso dei vegetali superiori. La flora specializzata che sopravvive nelle fessure della roccia viene detta casmofila. Assai tipici sono gli adattamenti cui essa ricorre. Le foglie coriacee, coperte di fitte pelurie o carnose sono  un efficace utile sistema contro la disidratazione. Spesso  inoltre le piante rupicole costituiscono caratteristici pulvini o cuscinetti: i numerosi  piccoli fusti molto ramificati e appressati tra loro fanno sì che la pianta assuma  una forma a semisfera, assai resistente alle intemperie. Le porzioni vive si offrono protezione reciproca, mentre  le porzioni morte che cadono all’interno del pulvino vanno incontro a decomposizione e danno  origi- ne a terriccio, utile scorta di acqua, sali minerali ed elementi nutri- tizi. La crescita dei cuscinetti avviene molto  lentamente e può durare anche  qualche  decennio.  Gli apparati radicali compensa- no  lo scarso  sviluppo della  porzione  epigea.  Le estese   radici penetrano negli anfratti, ancorano in modo deciso la pianta e riescono  a sfruttare ogni minimo deposito di terreno che si raccoglie nelle nicchie.
Esempi di questo adattamento si possono osservare sulle pareti esposte  a mezzogiorno  del  Dolada, salendo all’omonima forcella ove spiccanoi  glaucescenti  pulvini della saxi- fraga di Burser (Saxifraga bur- serana L.).
Negli anfratti frequentemente si osservano anche piante con struttura a rosetta, originata da crescita ridottissima dello scapo  vegetativo, cosicchè le foglie sembrano inserite tutte  alla stessa  altezza, in una  fitta spirale;  al  contrario  l’asse  fiorifero si allunga notevolmente, ma  è  effimero, quindi muore  al termine  della stagione favorevole. La saxifraga di Host (Saxifraga hostii Tausch), col suo lungo fusto fiorifero portante  all’apice una  pannocchia  di fiori biancastri,  offre  un  bell’esempio  di  questo    adattamento.  Inoltre  si  possono    trovare  l’endemica   Spirea decumbens subsp. tomentosa e la rara Minuartia graminifolia.

GLI ARBUSTETI  AD ONTANO VERDE E ICE

Boschi in miniatura, ecco cosa sono i fitti e impenetrabili cespuglieti dominati da ontano verde (Alnus viridis (Chaix.) DC).
Le esigenze ecologiche dell’ontano verde, che predilige terreni freschi e ricchi d’acqua, condizionano la distribuzione di questo  tipo di formazioni.  Si insediano   infatti sui  pendii  freschi  e  ombrosi esposti  a Nord, sugli i lungo i canaloni o ai margini dei torrenti, dove  non si hanno  mai periodi prolungati di siccità. L’ontano verde è un arbusto tenace, che sopporta bene le slavine o i carichi  di neve grazie alla elasticità del  suo  legno, quindi può vivere in zone impervie e soggette a  prolungato  innevamento.   È pianta stabilizzatrice di sfasciumi macereti, perché  grazie alla sua spiccata  capacità  di  produrre polloni costruisce arbusteti densi in grado di arrestare  il  movimenti dei detriti. Possiede in aggiunta un’ulteriore particolarità: è una pianta che arricchisce il terreno in cui vive di composti azotati. E’ infatti dotata,  a  livello dell’apparato radicale, di tubercoli in cui vivono alcuni microorganismi capaci di fissare l’azoto proveniente dall’atmosfera, che si  aggiunge alla quota di sali azotati che derivano dalla decomposizione del fogliame che nel periodo autunnale si deposita a terra. Al riparo delle fronde dell’ontano verde o nelle radure che si aprono all’interno dei cespuglieti si sviluppa una vegetazione rigogliosa, costituita  dalle  cosiddette   “megaforbie,  letteralmente  erbe  di grandi dimensioni. La presenza di notevoli quantità di azoto nel terreno esalta infatti lo sviluppo delle parti vegetative, cioè fusti e foglie, delle specie erbacee che diventano così lussureggianti e vistose. Molti elementi della flora del sottobosco  dell’ontaneta sono presenti infatti anche nelle vicinanze delle malghe  o dei luoghi di sosta  prolungata  del bestiame, dove le deiezioni degli animali creano condizioni di fertiliz- zazione accentuata.
Tra le alte erbe nitrofile, che prediligono le sostanze azotate, spicca la canapa  alpina (Adenostyles alliariae (Gouan)  Kerner) con  grandi foglie e densi corimbi di fiorellini rosei. Il ranuncolo a foglie di aconito (Ranunculus  platanifolius L.), dalle caratteristiche foglie palmate, predilige invece le stazioni più umide.
Gli arbusteti sono osservabili in Val Grande, sul versante orientale del Monte Caulana, gruppo del Monte Cavallo, oppure lungo il sentiero che da forcella Dolada conduce  a forcella Gallina lungo il versante nord della dorsale del Col Mat.

GLI AMBIENTI  UMIDI

Nell’altopiano del Cansiglio le zone umide sono ambienti poco diffusi a causa  dei marcati fenomeni  carsici che  ne  rendono difficile l’esistenza. Le acque  meteoriche non  rimangono  in superficie in torrenti o ruscelli, ma vengono assorbite dalle fessurazioni e dalle cavità presenti nella roccia calcarea, penetra- no in profondità e danno origine ad una rete idrica sotterranea. Le doline, strutture a forma di catino che a volte terminano  in un inghiottitoio, sono  appunto  le impronte  esterne  di questo fenomeno.
Le zone  umide  possono   avere  origine, aspetto  ed  ecologia diversi. Le lame sono specchi d’acqua circolari e poco profondi, simili a piccoli stagni, che presero  origine dalla impermeabilizzazione del fondo di una  dolina. In alcuni casi si tratta di effimeri ristagni temporanei,  dovuti ad un periodo di precipita- zioni abbondanti.  Di tipo diverso sono invece le torbiere, in cui l’acqua non compare  manifestamente ma il terreno ne è intriso. Hanno l’aspetto di particolari prati umidi e possono  derivare o dalla naturale  evoluzione  delle lame, per aumento  della flora di muschi che progressivamente arriva a riempire l’intera depressione (come   dimostrato  dal “Lamaraz” che  è  in una fase intermedia,  non  più lama ma non  ancora  vera torbiera), oppure  da antichi laghetti post-glaciali, come  quello che occupava un ramo laterale del ghiacciaio del Piave e che diede origine al Palughetto. Ancor oggi le acque  che vengono  raccolte in queste  aree, anche  se hanno  perduto  molti degli usi originari, vengono  utilizzate per  l’abbeveraggio del  bestiame   e degli animali selvatici, come  testimoniato  dalle orme  lasciate nella fascia marginale alle pozze.
Un altro tipo di ambiente  umido è costituito dal prato palustre a Molinia coerulea (L.) Moench, detto molinieto che si forma dove la falda acquifera diventa superficiale. Il terreno è ricco di sostanza  organica e in vario grado intriso d’acqua: dove l’umi- dità è maggiore le specie dominanti sono la molinia, che il nome  a questo  tipo di prateria, i giunchi (Juncus effusus  L.), la Caltha palustris L., piante poco appetite  dal bestiame,  che talvolta venivano  utilizzate come  strame  per  gli animali. Dove invece il livello  della falda si abbassa,   le condizioni del terreno sono  migliori e i  prati che  vi crescono  risultano di buona qualità. I molinieti dovevano rappresentare, in passato, la vegetazione tipica del “fondo” dellAlpago, e in particolar modo  in località Paludi. Le opere di bonifica degli anni trenta e, in generale, i  lavori di miglioramento  fondiario, hanno  ridotto attualmente  i popolamenti  a molinia a pochi lembi di territorio.
Gli ambienti  umidi sono  di fondamentale importanza  perché ospitano  specie  rare e  in via di scomparsa,  non  soltanto  in questa  zona, ma in tutto il territorio italiano. Da un confronto fra un  censimento dettagliato  delle  zone  umide  risalente  al
1980 e uno più recente, svolto nel 1998,  si evince come que- sti biotopi si siano sensibilmente modificati. Alcuni sono scomparsi, per  cause  naturali o per  l’intervento dell’uomo, altri si sono aggiunti di recente, ancora per cause naturali o creati artificialmente, altri si presentano ridotti nella profondità o nell’e- stensione,  probabilmente per effetto di cambiamenti  climatici. Alla luce della vulnerabilità di questo  tipo di ambienti e sopra- tutto  per  quel  che  riguarda il  Cansiglio, appare  chiaro come qualsiasi fattore che comporti anche  la solo parziale  bonifica o il loro prosciugamento determini una grave perdita.
Per tale motivo tutti i biotopi umidi del Cansiglio sono  considerati  “habitat prioritari di interesse  comunitario” in Europa, cioè di primaria importanza nell’ottica della conservazione.

LE FORMAZIONI  BOSCHIVE

Il  manto  forestale che copre l’altopiano del Cansiglio e le zone limitrofe (gruppo  del Col Nudo-Cavallo, conca dellAlpago, valle del Vajont, Val  Cellina e  area  pedemontana) si presenta  assai ricco e diversificato. Il suo aspetto attuale è il risultato di una serie di modificazioni, naturali e antropiche, che si sono susseguite dal- l’inizio del Quaternario, quando  il Cansiglio si presentava  come un  acrocoro  circondato  dal grande  ghiacciaio del  Piave e  dai ghiacciai minori degli affluenti del Livenza e del Tagliamento, fino ai giorni nostri. In funzione del clima e dei diversi tipi di terreno che  si sono  formati in condizioni geologiche,  morfologiche  e topografiche differenti, si è evoluto un paesaggio forestale ricco e composito.  Intenso è stato inoltre l’intervento dell’uomo: sia l’estensione   che  la composizione  della  superficie  boscata  sono state alterate in funzione delle diverse esigenze  delle popolazioni locali o delle scelte  compiute  dalle amministrazioni che  nel tempo  hanno  gestito il patrimonio boschivo.
Il  faggio è  certamente la specie  arborea  che  maggiormente caratterizza i boschi del Cansiglio e, a seconda  delle condizioni stazionali, può  dare  origine a  popolamenti   puri  o  misti, accompagnandosi con altre specie, soprattutto con l’abete bianco.  L’importanza  delle  faggete   viene   testimoniata   dal nome  che Venezia diede a questi boschi dopo esserne  entra- ta in possesso,  “Gran Bosco da Reme della Serenissima Repubblica di S. Marco, in quanto  è dai tronchi di faggio che venivano ricavati  i remi delle imbarcazioni della flotta veneziana. In epoche  più recenti, verso la fine del 700, il legno di faggio venne  destinato  alla costruzione  di particolari contenitori detti “scatoi, o altri utensili, costruiti a mano  con grande  abilità e destrezza  dai Cimbri.
La seconda  formazione  forestale in ordine di importanza  è la pecceta, il bosco di abete  rosso. Contrariamente  a quanto  succede altrove, questa  si colloca a quote inferiori rispetto alla faggeta. Per effetto della particolare morfologia a catino, infatti, l’a- ria fredda e umida ristagna più in basso  di quella calda, determinando  il fenomeno dell’inversione termica. Di conseguenza i boschi di latifoglie, che usualmente si estendono nelle fasce altimetriche inferiori, si sviluppano a quote  più elevate rispetto ai boschi di conifere.
Accanto alla faggeta e alla pecceta  che, nei loro diversi aspetti, costituiscono le tipologie boschive prevalenti, esistono altre for mazioni forestali nel comprensorio  Alpago-Cansiglio, meno  frequenti, ma ugualmente importanti. Fra queste  vanno ricordate:
gli aceri-frassineti,  boschi misti di latifoglie in cui dominano  l’a- cero di monte  (Acer pseudoplatanus L.) e il frassino maggiore (Fraxinus excelsior L.). In genere  occupano  i  fondovalle o le aree agricole abbandonate, in una fascia compresa  fra i 400  e gli 800  m s.l.m.; sono frequenti nelle vallate interne dellAlpago, su suoli fertili e con buona  disponibilità idrica. In primavera   il sottobosco  è  abbellito dai fiori bianchi del  campanellino (Leucojum vernum  L.), dal dente  di cane  (Erythronium dens- canis  L.) e  dalle  bianche  infiorescenze  della  barba  di capra (Aruncus dioicus (Walter) Fernald);
gli orno-ostrieti, boschi in cui abbonda il carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.)  associato  all’orniello (Fraxinus ornus  L.). Prediligono suoli superficiali e poco  evoluti, ricchi in calcare e poveri d’acqua; si possono  osservare  sui versanti meridionali del Cansiglio e sulle pendici del Dolada;
i boschi di pino nero austriaco (Pinus nigra Arnold), più este- si nella vicina regione friulana, ma presenti anche nella Valle del Piave. Queste  formazioni in Italia sono  presenti solamente nel versante meridionale delle Alpi orientali, dove occupano  pendii calcarei fortemente  acclivi ed esposti  a correnti umide,  in sta- zioni in cui la scarsa  capacità  di ritenuta  idrica del  substrato viene compensata dall’umidità atmosferica e dalle precipitazioni. Il sottobosco  ospita specie provenienti dai Balcani e ci offre in primavera il suo aspetto  migliore, grazie ai fiori bianco lattei di Daphne  blagayana  Freyer,  ai capolini roseo-purpurei  del- l’ambretta di Ressmann  (Knautia ressmannii  (Pacher)  Briq.) e alle singolari infiorescenza dell’euforbia della Carnia (Euphorbia triflora Schott, N. et K. ssp. kerneri (Huter) Poldini).

L AMBIENTE ALPINO

È sufficiente osservare  le forme  e  i  colori delle  piante  d’alta montagna  per cogliere la peculiarità di questa flora.  A condizioni ambientali severe e talvolta proibitive le piante fanno fronte con fenomeni  di adattamento che ne permettono la sopravvivenza e ne determinano modificazioni morfologiche e funzionali in certi casi vistose.
Molti sono  i fattori che limitano la crescita e lo sviluppo delle specie  vegetali: in primis  la lunga  permanenza della  coltre nevosa e di basse temperature, che riducono drasticamente la durata del periodo vegetativo. La pianta ha solo pochi mesi a disposizione  per  crescere  e  riprodursi. Anche  le  attività dei microrganismi che decompongono la lettiera risultano rallenta- te  e  di  conseguenza  è  disponibile  una  minor  quantità  di nutrienti nel terreno.
L’aria  pulita e  rarefatta, quasi  priva di pulviscolo e  povera  di umidità, svolge uno  scarso  effetto  filtrante: le radiazioni che giungono al suolo sono perciò più intense  e, soprattutto, con- servano una forte componente ultravioletta, che può risultare addirittura dannosa.
Un’ulteriore avversità è costituita dal vento  sferzante,  che  da un  lato provoca  danni  meccanici  a  causa  delle  particelle di ghiaccio e dei frammenti di sabbia che trasporta, dall’altro dissecca il suolo favorendo fenomeni  di stress idrico per le pian- te. Nel periodo freddo il pericolo di appassimento è legato alla cosiddetta   “siccità fisiologica,  cioè  al  fatto  che  l’acqua  del suolo c’è ma non è disponibile poiché gelata.
A tutte queste  difficoltà le piante alpine possono  far fronte grazie ad una serie di accorgimenti sofisticati.
Innanzitutto ricorrono frequentemente al fenomeno del nanismo,  hanno  cioè dimensioni  ridotte  e  spuntano  dal terreno per pochi centimetri, oppure  assumono forme compatte  con minima superficie di scambio  esposta  all’atmosfera. Vengono premiate  le piante  a cuscinetto  (come  ad esempio  la silene acaule (Silene acaulis (L.) Jacq.), a rosetta (Saxifraga crustata Miller) e cespitose  (Sesleria varia (Jacq.) Wettst.). Il vantaggio che ne ricavano è una minor resistenza  agli agenti atmosferici. Di conseguenza non  vengono  scalzate dal vento e rimangono completamente coperte  dalla neve. Sotto il manto  can- dido a ritmi lenti le delicate gemme  fiorali e fogliari si prepara- no  ad  una  rapida  ripresa  vegetativa nel  momento in cui si sciolgono i ghiacci. Le piante alpine adottano  una serie di trasformazioni contro il  pericolo della disidratazione, che  vanno sotto  il  termine  di xeromorfismo.  Viene ridotta la superficie fogliare, fino a foglioline minuscole come nel caso delle androsaci, la cuticola si ispessisce,  come  nel  caso  della  coriacea Erica carnea L., vengono sviluppate foglie carnose e succulente (come  nei generi Sedum L. e Sempervivum L.) e compare una  fitta peluria di rivestimento  che  permette di mantenere una certa umidità (Leontopodium alpinum Cass.).
Le piante di montagna  sviluppano un enorme  sistema di radi- ci, fino a cinque volte maggiore di una pianta di valle, per faci- litare l’assunzione dal terreno  delle sostanze  nutritizie, spesso molto carenti.
Anche i colori così vivi e sgargianti sono in realtà effetto di un meccanismo   di difesa  contro  le  radiazioni solari nocive: ne sono  responsabili infatti alcuni pigmenti che  le rendono  resi- stenti ai violenti raggi UV.
Nelle zone  in quota,  battute  dai venti gelidi, si insedia  una vegetazione  costituita da  arbusti  striscianti detti  “a spalliera, piccole piante legnose a crescita orizzontale, dalle foglie minuscole e indurite.
Dove invece la fitta coltre nevosa  permane per tempi  lunghi, sono favoriti gli arbusti con legno elastico, in grado di sopportare il peso  del manto  candido e gli effetti delle slavine. L’ambiente alpino è quindi popolato da vegetali minuscoli, ma preziosi e altamente  specializzati.

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