AMBIENTI 02



LA TORBIERA

Le torbiere sono zone umide in cui il terreno, saturo d’acqua, assume un caratteristico colore nerastro e viene ricoperto da cuscinetti di sfagni e muschi, accompagnati da specie specializzate con adattamenti particolari.
In Cansiglio troviamo la torbiera di Palughetto, il “Lamaraz” e una piccola ed interessante torbiera situata nella zona adiacente al Museo Ecologico “G. Zanardo”, ai bordi del sentiero che porta al Giardino Botanico.

Le torbiere prendono origine da un naturale   e progressivo processo  di riempimento  di antichi laghetti o “lame ad  opera  della vegetazione  acquatica  che  ha  continuato a svilupparsi fino a coprire completamente gli specchi d’acqua. Le parti morte  e indecomposte delle piante, continuando   a  depositarsi  sul  fondo,  hanno   dato  origine  ai depositi di torba.
La  forte  carenza  di  ossigeno   che   si  viene  a  creare  in ambiente   acquatico  e  le  basse  temperature  sono  causa dell’accumulo  di  detrito  vegetale:   in  queste   condizioni infatti l’attività dei microrganismi decompositori  del terreno che  degradano  completamente la sostanza  organica  presente  nelle parti morte  delle piante  rendendola disponibile per un successivo  e ciclico utilizzo da parte dei vegetali subisce un forte rallentamento.  I processi di mineralizzazione non vengono  completati e la sostanza  organica rimane sequestrata nei tessuti vegetali e non può essere  riutilizzata. Si viene a creare così un ambiente  particolare, asfittico, acido, povero di nutrienti e con un contenuto  di acqua  nel terreno  costantemente  elevato.  In simili condizioni  compaiono  forme di vita con adattamenti  particolari, specializzate  per  la  sopravvivenza  in  questo tipo di  habitat  e  spesso   esclusive  di  esso. Spiccano  per  la  loro  originalità le  piante insettivore, che  sopperiscono alla carenza   nel   terreno    di   composti    azotati mediante  la cattura di insetti. Rappresentanti  di questa  categoria sono le drosere  (Drosera rotundifolia L.), piccole   piantine   con   foglie  curiose,   a forma di cucchiaio e coperte  di vistosi peli ghiandolari rossi che portano  all’a- pice  una  minuscola  goccia  di liquido vischioso.  Gli  insetti  che   si  posano sulla lamina fogliare vengono  catturati e  trattenuti dai peli tentacolari e  successivamente digeriti.
In queste  condizioni severe  riescono a  sopravvivere anche  i  carici (Carex stellulata Good., Carex lasiocarpa Ehrh., Carex fusca All.), che  formano cespi   di   foglie  sottili,  accanto   agli eriofori (Eriophorum angustifolium Hon.   ed   Eriophorum   vaginatum    L.) che   devono   il   loro  nome   generico  - Eriophorum  in latino significa portatore di peli - ai caratteristici pennacchi  candidi che  compaiono  all’epoca della fruttificazione.

LA TORBIERA

Nelle torbe, oltre ai tessuti vegetali e animali, si depositano anche  spore e pollini: anch’es- si non subiscono  processi di decomposizione e si conservano  in perfetto  stato anche per millenni. Il graduale accumulo  di sedimenti   avviene   infatti  contemporanea- mente  alla deposizione  di granuli pollini- ci  sulla  zona   superficiale.  La  torbiera diventa perciò un vero e proprio archivio in continuo  aggiornamento  in cui sono custodite  molte  informazioni di  natura diversa.
La  parete   esterna   dei  granuli  pollinici porta  solchi,  rilievi, sculture  e  ispessimenti  che  sono  diversi per ogni singola specie. Questo permette di determinare, per buona  parte dei pollini,  il genere  e la specie  di appartenenza con  buona  precisione. Inoltre le varie profondità della torbiera corrispondono  a epoche  diverse: ovviamente gli strati più superficiali sono  quelli di più recente  deposizione, mentre  quelli più profondi sono  i  più antichi. Dal calcolo della proporzione  di polline delle diverse specie  in un dato  strato si può  risalire alla composizione  floristica e al tipo di vegetazione  esistente  nella zona  all'epoca  della formazione dello strato stesso.
La torba è un carbone  fossile, era chiamata  “il carbone  dei poveri,  e  questa   è  stata  la  sua  sfortuna.  Fin dall'epoca romana  venne  utilizzata come  combustibile  domestico  o nel settore  agricolo. A questo  si aggiungono anche  altri fattori di pericolo per la sopravvivenza delle torbiere, quali l'inquinamento delle acque, il drenaggio, il calpestio del bestiame.
Particolarmente  dannose sono  anche  le opere  di bonifica, di captazione  dell’acqua, come  pure  il  transito di visitatori “bipedi.
Soltanto  una  piccola parte  delle  torbiere  originariamente presenti  in  Europa  si  è  mantenuta  fino  ai  giorni nostri. Questi ambienti meritano perciò una particolare attenzione perché dalla loro conservazione  dipende  anche  la sopravvivenza delle  specie  animali e  vegetali esclusive  di questo tipo di habitat. Perciò anche  se la loro estensione è ridotta, l’importanza naturalistica che rivestono è primaria e per tale motivo attualmente vengono  tutelate  dalla legge.
Ancor meno  diffuse delle acide sono le torbiere neutro-basiche, in genere  alimentate  da locali affioramenti di acque  ricche  di ioni calcio, che  ne  determinano il  particolare chimi- smo.  La loro fisionomia è  caratterizzata dalla specie  dominante,  la carice di Davall (Carex davalliana Sm.). Spiccano tra  le  zolle  formate  da  questa   ciperacea  le  infiorescenze dalla lisca di Shuttleworth (Typha shuttleworthii Koch et Sonder)  e i  candidi pennacchi  penduli  dell’erioforo a foglie larghe (Eriophorum latifolium Hoppe).  Alcuni lembi di ridotte  estensioni  sono  localizzati nella parte  esterna  del  comprensorio  del Cansiglio, nella zona dellAlpago.
LA LAMA

Il Cansiglio non presenta  una rete idrografica superficiale ben sviluppata a causa del carsismo, per cui, fino ai primi anni ’60, quando  l’acquedotto in questa  zona ancora non esisteva, l’approvigionamento   idrico  costituiva  un   serio  problema.   Per ovviare alla carenza d’acqua, fondamentale sia per abbeverare il bestiame  al pascolo sia per ogni uso domestico,  dalla pulizia personale   a  quella  della  casa,  furono  utilizzate le  “lame” o “lamarazzi.  Si tratta  di pozze  naturali, o  scavate,  nei  pressi delle abitazioni, in cui il ristagno delle acque  piovane ha dato origine a piccoli specchi d’acqua, in genere  di forma circolare e di profondità relativamente  esigua, che si potevano  prosciugare durante  i periodi di siccità. Alcune lame sono  quindi artificiali: per  crearle un  tempo  si usava  foderare  il  fondo  delle doline (depressioni  carsiche) con fogliame o argilla, rendendo- lo così impermeabile,  mentre  attualmente a tale scopo vengo- no impiegati teli di polietilene. Molte lame derivano invece dal naturale processo  erosivo dei calcari durante  il quale vengono liberate  impurità  che  intasano  le  vie di deflusso  dell’acqua nelle doline, a cui si aggiungono accumuli di materiali argillosi che contribuiscono  all’impermeabilizzazione.
Nelle  lame,  spostandosi   concentricamente dal  centro  verso l’esterno, si possono  distinguere varie zone:
una parte centrale libera dalla vegetazione  oppure  con spe- cie galleggianti come  la lenticchia d’acqua (Lemna minor L.), o radicanti ma con foglie galleggianti sul pelo libero dell’acqua, come  la gamberaja  comune  (Callitriche palustris L.);
una fascia occupata  da vegetazione palustre, caratterizzata da specie meno  vincolate all’ambiente acquatico, con fusti e foglie in ambiente  subaereo,  quali la mestolaccia  comune  (Alisma plantago-aquatica  L.), il  gramignone  minore  (Glyceria plicata Fr.) o la giunchina comune  (Eleocharis palustris (L.) R. et S.);
infine una zona umida, che spesso  reca i segni  del  calpestio   del  bestiame,   che ospita specie  che  vivono fuori dall’ac- qua, anche  se radicano su terreni fangosi: fra queste  sono  frequenti carici quali la carice leporina (Carex lepori- na  L.) o  la  carice  rigonfia (Carex rostrata Stokes),  il  crescione  palu- stre (Rorippa  palustris (L.) Besser) e i giunchi: il giunco americano (Juncus tenuis L.) o il giunco comu- ne (Juncus inflexus L.).
Attualmente  gli scopi  originari per cui le lame furono utilizzati sono  in parte venuti a mancare  e il loro uso è legato solamente all’abbeveraggio
del bestiame. Tuttavia è rimasta ed enfatizzata   la  loro  importanza   dal punto  di vista naturalistico per i peculiari aspetti floristici e faunistici.


LE FAGGETE

Le faggete, i consorzi forestali maggiormente diffusi in Cansiglio, devono  la loro estensione e maestosità  al fatto che qui si trova- no le condizioni climatiche e pedologiche, cioè di terreno, ottima- li  per la crescita del faggio, Fagus  sylvatica L.. Specie mesofila, che vive in condizioni climatiche e ambientali intermedie, predilige un clima moderatamente ma costantemente umido, inverni senza  eccessive diminuzioni di temperatura,  suoli freschi e ben drenati, ed è particolarmente  esigente  in primavera, nel periodo della ripresa dell’attività vegetativa. Nel momento delicato della schiusa le gemme  e le foglioline vanno facilmente incontro al disseccamento, oltre a temere  in modo particolare le gelate tardive. In questo  periodo perciò la pianta necessita  di un’elevata disponibilità idrica ed essendo dotata di radici superficiali non riesce a captare l’acqua negli strati più profondi: le abbondanti  precipitazioni e le frequenti nebbie in primavera  sono  quindi  le  responsabili  principali della diffusione di questo  tipo di boschi. Se si rea- lizzano queste  condizioni il  faggio diviene l’elemento  incontrastato del bosco ed esclude  quasi completamente le altre specie  arboree.  Si vengono a formare così consorzi puri, spesso  coetanei, con fusti colonnari e slanciati come quelli che
si possono  osservare nei pressi di Vallorch, di particolare maestosità.
Le  chiome   tendono   a  formare   una   compatta copertura fogliare che impedisce la penetrazione di gran  parte  della  radiazione  solare.  Poiché  poche piante sono in grado di tollerare queste  condizioni di  marcato  ombreggiamento si verifica una  forte selezione sia nei confronti dello strato arbustivo che di quello erbaceo, mentre ampie aree rimango- no prive di vegetazione e coperte da un’abbondante lettiera di foglie morte. In primavera, però, vistoso e di grande effetto è il sottobosco: molte specie  erbacee  infatti presentano una  fioritura precoce,  in anticipo rispetto allo sviluppo delle foglie del faggio e compiono  le delicate fasi della fioritura e della fruttificazione quando  la luce solare riesce ancora a filtrare fino al suolo. Fra queste  le più diffuse sono le cardamini (Cardamine  pentaphyllos  (L.)
Crantz), C. bulbifera (L.) Crantz, C. enneaphyllos (L.) Crantz), l’acetosella (Oxalis acetosella  L.), l’anemone  dei boschi (Anemone nemorosa L.), il bucaneve  (Galanthus  nivalis L.). Le piante che utilizzano questa strategia vengono dette geofite; esse riescono  ad anticipare la ripresa vegetativa sfruttando le riserve contenute negli organi sotterranei.
Nella stagione estiva invece localmente possono  predominare le felci (Pteridophyta)  accanto  a  sporadiche  fioriture di orchidea macchiata  (Dactylorhiza maculata  (L.) Soò), o di erba  lucciola maggiore (Luzula nivea (L.) Lam. et DC.).
Laddove le condizioni ambientali  diventano  meno  favorevoli il faggio diminuisce la sua competitività a vantaggio di altre specie: in particolare in condizioni di maggior continentalità l’abete bianco (Abies alba Miller) diviene concorrenziale e si formano foreste miste di latifoglie e conifere, in cui il rapporto quantitativo fra le specie non è costante, ma dipende  dalle condizioni stazionali e dall’intervento dell’uomo nella gestione  del bosco.  A  questo consorzio può partecipare  sporadicamente anche  l’abete rosso, Picea excelsa (Lam.) Link. Rispetto alle faggete non solo la composizione  di specie  diverse, ma  anche  la struttura è differente, perché le chiome, che si sviluppano a palchi sovrapposti, vengo- no più facilmente attraversate dai raggi solari. Questo  permette quindi lo sviluppo di un sottobosco  arbustivo, erbaceo  e muscinale che nel caso precedente era assai ridotto.
I pendii con esposizione  protetta e soleggiata, con terreno poco evoluto, povero di humus  e fortemente  drenante  caratterizzano gli aspetti termofili della faggeta, come  si può osservare in località Lamar, lungo la strada che da Cordignano porta alla Crosetta. La ridotta disponibilità idrica che si può verificare nel periodo esti- vo crea condizioni poco favorevoli alla specie dominante,  che si consocia con specie meno  esigenti nei riguardi del bilancio idrico, quali l’orniello (Fraxinus ornus L.) e il  carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.). Il  sottobosco  in queste  stazioni è  abbellito dalle fioriture di cefalantera maggiore (Cephalanthera longifolia (Hudson) Fritsch), elleboro profumato  (Helleborus odorus W. et K.) e geranio nodoso  (Geranium  nodosum L.).

LA PECCETA

La pecceta si presenta  come un bosco con predominanza di Abete  rosso  (Picea excelsa  (Lam.)  Link) accanto  al quale riescono  ad  inserirsi anche  l’abete  bianco  e  il  faggio. Nel sottobosco  compaiono  frequentemente specie  quali il  mir- tillo (Vaccinium myrtillus L.), il falso mirtillo (Vaccinium vitis idaea  L.) e le pirole (Moneses uniflora (L.) A. Gray,  Orthilia secunda  (L.) House).  In Cansiglio l’abete rosso risente della concorrenza  del faggio, le cui esigenze  meglio concordano con l’oceanicità della zona. A differenza di questo, non teme gli eccessivi rigori, né  le gelate  tardive o precoci, quindi la pecceta  tende  ad occupare  soprattutto  quelle zone in cui le condizioni sono più marcatamente continentali, come ad esempio  il margine delle doline, dove il ristagno di aria fredda limita la dominanza  del faggio relegandolo  ad un  ruolo secondario  nello strato arbustivo. Tuttavia, caratteristica del peccio  è  una  notevole  plasticità che  lo rende  adattabile  a diverse situazioni ecologiche e ambientali. Perciò la sua diffusione  è stata favorita dall’uomo, che  lo ha sfruttato per il legno   particolarmente   apprezzato,   a  discapito   dell’abete bianco (Abies alba Miller). Per questo  motivo non  soltanto qui, ma anche  in molte altre zone  delle Alpi sono  frequenti gli impianti artificiali.  I  popolamenti   puri e  coetanei  che  si possono    osservare   nella   parte   bassa   del   catino   del Cansiglio, di età compresa  fra i 60  e gli 80  anni sono  quindi frutto della centenaria  attività selvicolturale. Le formazioni omogenee, come  queste,  in genere  sono  molto più delicate  e  sensibili alle variazioni dei  fattori ambientali  e  agli attacchi parassitari. Alla fine degli anni  ‘80, infatti, si sono verificate una  serie  di  pullulazioni, cioè  sviluppi abnormi delle popolazioni di Cephalcia arvensis Panzer, un imenottero fillofago che ha causato  un’ingente defoliazione e con- seguentemente un  declino dei boschi  colpiti dal parassita. L’infestazione  si  estese   a  macchia   d’olio,  tanto   che   in Cansiglio la superficie coperta  dalla pecceta  diminuì di ben
150  ettari. Ad innescarla paiono  essere  stati andamenti  cli- matici anomali, in particolare un susseguirsi di annate  siccitose, che avrebbero alterato i processi che normalmente mantengono costante  la numerosità  delle popolazioni di insetti.
Un  aspetto   particolare  della  pecceta   è  quello  che  orla  il fondo  delle  grandi  doline  in Val  Menera  e  in Cornesega, zona in cui la persistenza  di aria fredda crea condizioni più marcatamente continentali. Per la maggior parte la pecceta di dolina è di impianto  artificiale. La densa  copertura  delle chiome quando  il popolamento è giovane condiziona pesantemente lo sviluppo del sottobosco  erbaceo  che risulta assai povero. Col tempo  e in seguito alle avversità atmosferiche, le chiome si diradano e si sviluppa invece uno stra- to  arbustivo  ricco di caprifogli (Lonicera  nigra  L.,  L.  xylo- steum   L.,  L.  alpigena  L.) e  di sambuco   rosso  (Sambucus racemosa L.). Nelle schiarite i  tipici elementi  delle  radure allietano l’occhio con i loro frutti o fiori colorati, fra cui il lam- pone  (Rubus  idaeus  L.), il  garofanino maggiore (Epilobium angustifolium   L.),  il   senecio   di  Fuchs  (Senecio   fuchsii Gmelin).

LE MUGHETE

Le mughete sono  formazioni arbustive diffuse soprattutto  sulle Alpi Orientali, su substrati calcarei e dolomitici, in genere  nella fascia compresa  tra le vegetazioni boschive arboree  e le prate- rie d’altitudine. Dominatore  incontrastato è il pino mugo (Pinus mugo  Turra), detto  anche  barancio, dai cui strobili pigne - si ricava il mugolio, utile per le sue proprietà balsamiche.
Spesso si presentano come boscaglie chiuse e quasi impenetrabili per il fitto intreccio creato dai fusti prostrati e dai rami di questa conifera. Talvolta  il mugo può presentarsi in popolamenti  pionieri che colonizzano cenge e dirupi. Predilige le rupi, i pendii di frana detritici e gli sfasciumi incoerenti. In questi habitat è favo- rito nella competizione  con le altre specie perché frugale e assai resistente  al gelo e  alla siccità, ma  soprattutto  perché,  grazie all’elasticità del suo  legno che  si flette senza  spezzarsi sotto  il peso  del  manto  nevoso,  è  in grado  di sopportare  coperture notevoli e prolungate e addirittura di far fronte alle slavine.

Le mughete svolgono un’importante azione  consolidatrice perché  con  i  loro rami contorti e serpeggianti tratte detriti e  ne  arrestano  la discesa, innescando  così l’evoluzione verso forme di terreno  più mature.  Sono forzioni  stabili  a  dinamismo   molto lento.
L’altitudine  e  la geomorfologia sono   due   fattori  chiave  nel determinarne i diversi aspetti. Fino  ai  1600  m  il   mugo   si accompagna   alle  latifoglie più ampiamente diffuse nelle cenosi
forestali alle quote inferiori, quali il sorbo montano  (Sorbus  aria (L.) Crantz.), il  sorbo  degli uccellatori (Sorbus aucuparia L.), l’acero di m.
Il salice stipolato (Salix appendiculata  Vill.), in genere a portamen- to arbustivo. Questa  situazione è destinata  a non avere ulteriore evoluzione  verso  formazioni  strutturalmente  più  complesse a causa delle condizioni del suolo.
A quote superiori, attorno ai 2000 m, su suoli basici, superficiali e molto ricchi in scheletro, ovvero di sassi di una certa dimensione,  il mugo è accompagnato dal rododendro irsuto (Rhododendron hirsutum  L.) che forma nuclei densi negli spazi lasciati liberi, dando luogo a un fitto strato basso arbustivo, mentre  la sesleria (Sesleria varia (Jacq.) Wettst.) è fra le poche specie erbacee presenti.
Nelle zone in cui la minor pendenza permette l’accumulo di terreno, con un conseguente bilancio idrico più favorevole, e le acque  meteoriche hanno  causato il amento  dei suoli e la loro decalcificazione, mugo  si accompagnano  il  rododendro rosso   (Rhododendron  ferrugineum   L.), eccezionalmente  la  moretta   palustre (Empetrum  nigrum),   specie   propria delle torbiere acide a  sfagni. E inoltre  i mirtilli:  il mirtillo  nero (Vaccinium myrtil- lus L.), rosso (Vaccinium vitis-idaea L.) e il falso mirtillo (V. gaulterioides L.), specie Indicatrici di terreni acidi. Per una panoramica generale,  salendo  da Malga Cate in Val Salatis si possono  incontrare via via tutti i tipi decritti. L’importanza delle mughete è riconosciuta  dalla  Direttiva  Comunitaria  “Habitat” 3/CEE), che le considera come habitat di ria importanza,  la cui tutela  deve  esser e finalizzata a mantenerne la conservazione.

I SESLERIETI

Le praterie d’altitudine maggiormente diffuse si affermano sui substrati calcarei e dolo- mitici. La sesleria  comune   (Sesleria  varia (Jacq.) Wettst.), graminacea dalle tipiche spighette argentate, e la carice sempreverde (Carex sempervirens Vill.), che forma cespi fitti ben ancorati al terreno, sono le due specie dominanti che edificano un manto erboso verdeggiante.
I  seslerieti possono  occupare  ripidi pendii, spesso  conformati a gradoni, esposti a meridione,  in cui il  suolo  è  assai  drenante perché l’acqua defluisce velocemente attraverso la matrice grossolana di cui è formato e si istaurano perciò condizioni di aridità. La copertura è discontinua, con zolle erbose isolate, frammiste a terreno nudo.
Se il pendio è molto erto e instabile queste vegetazioni sono destinate  a conservare permanentemente tale frammentarietà.  In situazioni meno proibitive invece possono evolvere verso stadi più maturi, il cotico erboso si chiude e diviene uniforme.
Dal punto di vista floristico queste praterie appaiono molto ricche: attraverso il  feltro denso  e  compatto  di radici di carice e sesleria  riescono  ad  attecchire numerose specie che al momento della fioritura danno  una nota cromatica visto- sa.  I  capolini violetti dell’astro delle  Alpi (Aster alpinus L.) accompagnano il rosa intenso  dei fascetti di fiori di dafne  rosea  (Daphne striata Tratt.) nelle zone  in cui il terreno  è meno  profondo  e presenta  affioramenti rocciosi; la primula  orecchia  d’orso (Primula auricola L.), abitante  delle rupi, accompagna  la sesleria fin dalle prime fasi dello sviluppo della prateria. Altrove invece spicca il  bianco dei fiori dell’anemone  narcissino (Anemone narcissiflora L.) o della Pulsatilla alpina (L.) Delarbre, o l’azzurro intenso della Gentiana verna L. Il  seslerieto  è  anche  l’habitat o della pianta  considerata  simbolo Dolomiti,  la   celebre   stella   a (Leontopodium   alpinum   Cass.). Di origine steppica,  questa  specie  cresce   a   sopravvivere   anche   su rocce nude,  ma  soltanto  in questi ambienti  riesce ad offrire fioriture ampie e abbondanti.

Parecchie   specie   appetite   dal bestiame   crescono   in  queste
praterie,   che   vengono   perciò utilizzate per il pascolo. Si cerca tuttavia  di  mantenere  tale  attività limiti di sostenibilità, essendo qu
vegetazione  sensibile  sia all’eccessivo calpestio che  al prolungato  stazionamento del  bestiame.  
In assenza  di una  gestione  oculata  si rischia di modificarne  la composizione  floristica, con  l’eliminazione delle specie  maggiormente pascolate e la loro sostituzione con quelle più coriacee o meno  gradite dal punto  di vista organolettico (amare  o velenose),  nonché  alla sua alterazione dal punto di vista quantitativo (cioè della biomassa  prodotta).

I FIRMETI

Sui ghiaioni non ben consolidati, sui brecciai e sui pendii franosi si instaurano  spesso delle praterie   discontinue,    chiamate   firmeti, dominate  dalla carice rigida (Carex Host.), una  ciperacea  con foglie rigide e coriacee,   assai   resistente   alle  b temperature e all’azione dei venti. I firmeti sono tipici della fascia alpina, m possono arrivare fino a quasi  3000 m, in condizioni di esposizione  particolarmente    favorevole  o   scender fino a  1500 m,  al limite del  bosco. Esempi   tipici  di  queste    vegetazioni sono osservabili al di sopra dei 2000 s.l.m., sul Monte Sestier.
Carex firma origine a cespi densi e compatti hanno  un ruolo di primo piano nella stabilizzazione dei detriti. Negli stadi iniziali il firmeto assume  una conformazione  a gradinate, in cui le zolle di carice sono frammiste a cespugli nani di salice (Salix retusa L. e lix   reticulata  L.)  e   di  camedrio   alpino ryas octopetala  L.), specie  pioniere  che, on  i  fitti intrecci formati dai loro fusti stricianti e  dalle radici, esplicano  un’efficace azione   consolidatrice.  Frequentemente   i cuscinetti emisferici di carice vengono sradicati e trasportati più a valle con la caduta dei detriti. A  mano  a  mano  che  i  cuscini di carice  si espandono e si uniscono  fra loro la copertura  diviene più continua. Specie diverse si affermano nelle varie fasi di evoluzione del firmeto: la genziana di Clusius (Gentiana  clusii Perr. et  Song.), dai bellissimi fiori blu, la pedicolare  sottile (Pedicularis rosea  Wulfen) con le corolle rosate, la cinquefo- glie delle Dolomiti (Potentilla nitida L.), coperta  di peli argen- tati, numerose sassifraghe  (Saxifraga caesia  L.,  S. moschata Wulfen, S. aiziodes  L.), la modesta  orchidea  gramignola (Chamaeorchis   alpina  L.C.  Rich.), l’aromatico millefoglio di Clavena (Achillea clavenae  L.), l’endemica primula di Wulfen (Primula wulfeniana  Schott) dal colore intenso.
La dinamica della prateria a carice rigida è strettamente  connessa  all’evoluzione del suolo. I terreni che ospitano il firmeto nello stadio iniziale di affermazione sono   poco   profondi e risentono delle  caratteristiche  del substrato roccioso sottostante:  il contenuto di carbonati è elevato e l’humus assai scarso.
Gli stadi stadi successivi  corrispondono  ad un suolo più maturo, che la vegetazione  stessa  ha contribuito a modificare favorendo la deacidificazione e  l’accumulo di materia organica.  In queste   condizioni  altre  specie   vegetali  possono risultare  avvantaggiate ed assumere  un   ruolo   via via più  importante.  Si possono così  affermare altri tipi di vegetazione,  più di frequente  i seslerieti.

LA VEGETAZIONE DEI GHIAIONI

Ai piedi delle pareti rocciose si depositano spesso  ingenti ammassi  di ciottoli e ghiaie, la cui origine è legata soprattutto alle alterne fasi di gelo e disgelo che disgregano e frantumano le rocce sovrastanti. Si formano così i grandi conoidi di detrito che scendono fino a valle.
Si tratta di ambienti veramente  avversi, in cui il continuo rotolamento verso valle, l’apporto di materiale dall’alto, le condizioni di aridità del  suolo  e  la forte irradiazione solare  rendono quasi proibitiva la sopravvivenza dei vegetali. L’acqua  percola molto velocemente dalla superficie, ma i depositi fini raccolti nelle  piccole  tasche  che  si formano  al di sotto  della  coltre detritica riescono  a  mantenere un  minimo  di umidità  e  di humus  che rendono  possibile la vita dei vegetali. Frequentemente le porzioni aeree  delle piante vengono spezzate o rovinate dai sassi durante  i loro movimenti di assestamento,  o addirittura ricoperte  da  nuove  colate  detritiche. Le piante reagiscono a queste  avversità rigenerando la parte danneggiata. Una volta che i semi sono riusciti a germogliare negli strati di argilla più profondi, le giovani piantine iniziano a sviluppare   un  apparato   radicale  che  diventerà  predominante rispetto alla parte  (sub)  aerea.  Le piante  detritiche utilizzano diverse strategie per vegetare e propagarsi.


Alcune sono ancora con un robusto fittone e dotate di  polloni  a  crescita orizzontale,  che  di  solito  vengono ripetutamente coperti dalla
ghiaia, ma sono in grado di   produrre   giovani getti emergenti  sulla superficie.
Se il disturbo cessa il pollone  può  radicar a sua  volta. Altre esili piante, legate ai ghiaioni più  fini,  anche mobili  o  molto   acclivi, crescono  sulla superficie detritica e riescono a radicare anche nei  più  piccoli depositi  di materiale  argilloso. Fra  queste   va annoverata  l’inconfondibile linaria alpina (Linaria alpina  (L.) Miller),  i cui sottili fusticini portano fiori violetti con la caratteristica fauce aranciata, riuniti in infiorescenze a racemo.
Altre piante  più robuste,  spesso  dotate  di caule legnoso, sviluppano  una densa  copertura al di sopra delle ghiaie e danno origine a cuscinetti densi. Radicando, esse riescono   a  consolidare   anche   cospicue estensioni  di macereto.  In genere  queste occupano  stazioni con  pendenza  poco accentuata.
Altre piante  sono  dotate  di robustissimo rizoma che si allunga in senso verticale ed emettono polloni che riesco- no a perforare la copertura ghiaiosa. Infine le cosiddette  stabilizzatrici sono  dotate  di  una  radice  a  fittone  molto robusta  che  serve  come   ancoraggio, accompagnata da  un  esteso   sviluppo di radici sottili più superficiali che, alme- no temporaneamente, riescono a bloccare  il  continuo  movimento  del  materiale  sassoso,   creando   un  minimo  di stabilità. In tal modo  si vengono  a crea- re le condizioni favorevoli per l’insedia- mento  di altre piante, più esigenti, ma in grado di formare un vero cotico erboso continuo.
Elemento  caratteristico dei ghiaioni calcarei  è   l’inconfondibile  papavero   alpino (Papaver  rhaeticum  Leresche)  che, in nei mesi  estivi, forma isole gialle con i suoi fiori dorati.

LE VALLETTE NIVALI

Vengono chiamate  vallette nivali le conche  o i valanga, in  genere   di  estensione posti a settentrione,  in cui la neve e  persiste  per  un  periodo  molto lungo. Trovandosi   in   condizioni   riparate,  il manto nevoso  si  scioglie soltanto  a  stagione avanzata e di conseguenza  il   periodo  che  le piante hanno a   disposizione  per  ricostruire le parti vegetative, fiorire, fruttificare e disseminare è ridotto a pochi mesi. Anche le condizioni del suolo, ricco di humus  e argilloso non  sono  ottimali per  la vita dei vegetali. Di solito, dopo  il  disgelo, il defluusso dell’acqua di fusione avviene molto  lentamente per  lo scarso drenaggio, per cui il terreno rimane umido   anche   d’estate.   Il    poco calore solare riesce a mala pena  a far evaporare  l’acqua del suolo, ma non riesce ad innalzarne la temperatura.  Il  terreno  asfittico e  freddo, unitamente alla prolungata  stagione avversa, selezionano  una  flora povera assai resistente  e specializzata .Le vallette  nivali sono  colonizzate  da  specie  nane,  le  cui ridotte   dimensioni   permettono  un   miglior  sfruttamento delle scarse risorse disponibili. Tipici sono i salici nani, (Salix reticulata L. e S. retusa L.) che spesso  si presentano conso- ciati. Il  salice reticolato, di origine artica, coi suoi fusti stri- scianti e radicanti, forma fitti tappeti  assai coprenti. Il  salice retuso,  dalle foglie lucide e  coriacee,  invece  presenta  fusti robusti  e  ascendenti   e  si  conforma  a  spalliera. Entrambi sono dioici, cioè con i sessi separati. Ciascun esemplare può portare solo fiori o maschili o femminili.
Per  sfruttare  al meglio  il  breve  periodo  vegetativo  alcune piante  preparano  i  boccioli sotto  il  manto  nevoso,  come  la soldanella minore (Soldanella  minima  Hoppe),  la cui corolla  bianco-rosata  a  forma  di  piccola  campana   sbuca  dalla neve  all’inizio del disgelo. Altre si preparano  con largo anticipo alla fioritura: già alla fine dell’estate iniziano a produrre le gemme  fiorali per la stagione
successiva.  Nonostante  queste strategie, di frequente,  la moltiplicazione vegetativa è  l’unico meccanismo  di riproduzione   possibile  perché   i   semi difficilmente    giungono    a maturazione.
Le vallette nivali, al di sopra di una  certa  quota,  si possono   ritrovare  in  tutto   il massiccio,    ma    esempi significativi sono rinvenibili  sul  Col Nudo  e  in  Val Sperlonga, parte  termina- le della Val Salatis.





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