LA VEGETAZIONE DELLE
RUPI
Anche sulle pareti
verticali e sulle rupi strapiombanti
trovano dimora specie vegetali
che,
pur incontrando condizioni
ambientali assai severe e selettive, riescono
a
sopravvivere
aggrappate alla roccia conferendole splendidi colori. Nonostante in apparenza l’ambiente rupestre sia omogeneo, in realtà in relazione all’esposizione e alla morfologia della roccia,
si realizzano condizioni ecologiche diverse.
Le pareti esposte a sud sono soggette a forte riscaldamento, nei momenti
di
intensa insolazione, alternati a periodi di gelo, durante la notte o la stagione autunnale e invernale. Le rupi esposte
a nord o in stazioni ombreggiate
non
risentono
di escursioni termiche altrettanto accentuate,
ma
raggiungono
minimi termici molto più bassi perché
ricevono le radiazioni solari in misura
limita- ta. Sulle nicchie o sulle minuscole
cenge
quasi
orizzontali
vegetano piante
in grado di sfruttare
i piccoli accumuli
di ter- riccio che vi si depositano, mentre altre riescono
ad ancorarsi saldamente alle fessure verticali.
Altre ancora si collocano negli anfratti in cui continui
stillicidi assicurano il mantenimento del- l’umidità necessaria alla sopravvivenza.
Sulla nuda roccia le piante a fiore non riescono ad insediarsi per le condizioni quasi proibitive.
Qui
i
veri pionieri sono
licheni
e muschi che con la loro attività riescono,
alla lunga, a dare origine ad un suolo primitivo, aprendo così la strada
per l’ingresso dei vegetali superiori. La flora specializzata che sopravvive nelle fessure della roccia viene detta casmofila. Assai tipici sono gli adattamenti cui essa ricorre. Le foglie
coriacee, coperte di fitte pelurie o carnose
sono un efficace
utile sistema contro la disidratazione. Spesso
inoltre le piante
rupicole costituiscono caratteristici pulvini o cuscinetti: i numerosi piccoli
fusti molto ramificati e appressati tra loro fanno sì che la pianta assuma una forma a semisfera, assai resistente alle intemperie. Le porzioni vive si offrono protezione reciproca, mentre
le porzioni
morte che cadono all’interno del pulvino vanno incontro a decomposizione e danno
origi- ne a terriccio, utile scorta di acqua, sali minerali
ed elementi nutri- tizi. La crescita dei cuscinetti avviene molto
lentamente e può durare anche
qualche decennio.
Gli apparati
radicali compensa- no
lo scarso sviluppo della porzione
epigea. Le estese radici
penetrano negli anfratti, ancorano in modo deciso la pianta e riescono a sfruttare
ogni minimo deposito di terreno che si raccoglie nelle nicchie.
Esempi di questo adattamento si possono osservare sulle pareti esposte
a mezzogiorno
del Dolada, salendo all’omonima forcella ove spiccanoi glaucescenti pulvini della saxi- fraga di Burser
(Saxifraga bur- serana L.).
Negli anfratti
frequentemente si osservano anche piante con struttura a
rosetta, originata da crescita ridottissima dello scapo vegetativo,
cosicchè le foglie sembrano inserite tutte
alla stessa altezza, in una
fitta spirale; al contrario
l’asse fiorifero si
allunga notevolmente, ma è effimero,
quindi muore al termine
della stagione favorevole. La saxifraga di Host (Saxifraga hostii Tausch), col suo lungo fusto fiorifero portante all’apice
una pannocchia di fiori biancastri,
offre un
bell’esempio di questo adattamento. Inoltre si
possono
trovare l’endemica
Spirea decumbens subsp.
tomentosa e la rara Minuartia
graminifolia.
GLI ARBUSTETI
AD ONTANO VERDE E ICE
Boschi in miniatura, ecco cosa sono i fitti e
impenetrabili cespuglieti dominati da ontano verde (Alnus viridis (Chaix.) DC).
Le esigenze ecologiche dell’ontano verde, che predilige terreni freschi
e ricchi d’acqua,
condizionano la distribuzione di questo
tipo di formazioni. Si insediano
infatti sui
pendii freschi
e ombrosi
esposti a Nord, sugli i lungo i canaloni o ai margini dei torrenti, dove non si hanno
mai periodi
prolungati di siccità. L’ontano verde è un arbusto tenace, che sopporta bene le slavine o i carichi di neve grazie alla elasticità del suo legno, quindi può vivere in zone impervie e soggette
a prolungato innevamento. È pianta stabilizzatrice di sfasciumi macereti, perché
grazie alla sua spiccata
capacità di
produrre polloni
costruisce arbusteti densi in grado di arrestare il movimenti dei detriti.
Possiede in aggiunta un’ulteriore particolarità: è una pianta che
arricchisce il terreno
in cui vive di composti azotati. E’ infatti dotata, a livello dell’apparato
radicale, di tubercoli in cui vivono
alcuni microorganismi
capaci di fissare l’azoto proveniente dall’atmosfera, che si aggiunge alla quota di sali azotati che derivano dalla decomposizione del fogliame
che nel periodo autunnale si deposita a terra. Al riparo delle fronde dell’ontano verde o nelle radure
che si aprono all’interno dei cespuglieti si sviluppa una vegetazione rigogliosa, costituita dalle cosiddette “megaforbie”, letteralmente erbe di grandi dimensioni. La presenza di notevoli quantità di azoto nel terreno esalta infatti lo sviluppo delle parti vegetative, cioè fusti e foglie, delle specie erbacee
che diventano così lussureggianti e vistose. Molti elementi della flora del sottobosco
dell’ontaneta sono presenti infatti anche nelle vicinanze delle malghe
o dei luoghi di sosta
prolungata
del bestiame,
dove le deiezioni degli animali creano condizioni di fertiliz- zazione
accentuata.
Tra le alte erbe nitrofile, che prediligono le sostanze azotate, spicca la
canapa alpina (Adenostyles alliariae (Gouan)
Kerner) con
grandi foglie
e densi corimbi di fiorellini rosei. Il ranuncolo a foglie di aconito (Ranunculus platanifolius L.), dalle caratteristiche foglie palmate, predilige invece le stazioni più umide.
Gli arbusteti sono osservabili in Val Grande, sul versante orientale del Monte Caulana, gruppo del Monte Cavallo, oppure lungo il sentiero che da forcella Dolada conduce
a forcella Gallina lungo il versante nord della dorsale del Col Mat.
GLI AMBIENTI
UMIDI
Nell’altopiano del Cansiglio le zone umide sono ambienti poco diffusi
a causa dei marcati fenomeni carsici che ne rendono
difficile l’esistenza. Le acque
meteoriche non
rimangono
in
superficie in torrenti o ruscelli, ma
vengono assorbite dalle fessurazioni e dalle cavità presenti nella roccia calcarea,
penetra- no in profondità e danno origine ad una rete idrica sotterranea.
Le doline, strutture
a forma di catino che a volte terminano
in
un inghiottitoio, sono appunto
le impronte esterne di questo fenomeno.
Le zone
umide
possono avere origine, aspetto ed ecologia diversi. Le lame sono specchi d’acqua
circolari e poco profondi, simili a piccoli
stagni, che presero origine dalla impermeabilizzazione del fondo di una dolina. In alcuni casi si tratta di effimeri ristagni temporanei, dovuti ad un periodo
di precipita- zioni abbondanti. Di tipo diverso sono invece le torbiere, in cui
l’acqua non compare manifestamente ma
il terreno ne è intriso.
Hanno l’aspetto di particolari
prati umidi e possono
derivare o dalla naturale
evoluzione delle
lame, per aumento
della
flora di muschi che progressivamente arriva a riempire
l’intera depressione (come dimostrato dal “Lamaraz” che è in una fase intermedia,
non
più lama ma non ancora
vera torbiera), oppure da antichi laghetti
post-glaciali, come quello che occupava un ramo laterale del ghiacciaio del Piave e che diede origine al “Palughetto”. Ancor oggi le acque che vengono
raccolte in queste
aree, anche
se hanno perduto
molti degli usi
originari, vengono utilizzate per l’abbeveraggio del bestiame e degli animali
selvatici, come testimoniato
dalle orme lasciate
nella fascia marginale alle pozze.
Un altro tipo di ambiente umido
è costituito dal prato palustre
a Molinia coerulea (L.)
Moench, detto molinieto
che si forma dove la falda acquifera
diventa superficiale.
Il terreno è ricco di sostanza organica e in vario grado intriso d’acqua:
dove l’umi- dità è maggiore le specie dominanti sono la molinia, che dà il nome a questo
tipo di prateria, i giunchi (Juncus effusus L.), la Caltha palustris L., piante poco appetite
dal bestiame, che talvolta venivano
utilizzate come strame
per
gli animali.
Dove invece il livello della falda si abbassa,
le condizioni del terreno sono
migliori e i prati che vi crescono risultano di buona qualità. I molinieti dovevano rappresentare, in
passato, la vegetazione tipica del “fondo” dell’Alpago, e
in particolar modo in
località Paludi. Le opere
di bonifica degli anni trenta e, in generale,
i lavori di miglioramento fondiario, hanno ridotto attualmente i popolamenti a molinia
a pochi lembi di territorio.
Gli ambienti
umidi sono di fondamentale importanza perché
ospitano specie rare e
in via di scomparsa, non
soltanto
in
questa zona,
ma in tutto il territorio italiano.
Da un confronto fra un censimento dettagliato delle zone umide
risalente
al
1980
e uno più recente, svolto nel 1998, si evince come que- sti biotopi
si siano sensibilmente modificati. Alcuni sono scomparsi, per
cause naturali o per l’intervento
dell’uomo, altri si sono
aggiunti di recente, ancora
per cause naturali
o creati artificialmente, altri si presentano ridotti nella profondità o nell’e-
stensione, probabilmente per
effetto di cambiamenti climatici.
Alla luce della vulnerabilità di questo
tipo di ambienti e sopra- tutto
per quel che riguarda il Cansiglio, appare chiaro
come qualsiasi fattore
che comporti anche
la solo parziale
bonifica
o il loro prosciugamento determini una grave perdita.
Per tale motivo
tutti i biotopi umidi
del Cansiglio sono considerati
“habitat prioritari di interesse comunitario” in Europa, cioè di primaria importanza nell’ottica della conservazione.
LE FORMAZIONI
BOSCHIVE
Il manto forestale
che copre l’altopiano del Cansiglio e le zone limitrofe
(gruppo del Col Nudo-Cavallo,
conca dell’Alpago, valle del
Vajont, Val Cellina e area
pedemontana) si presenta assai ricco e diversificato. Il suo aspetto
attuale è il risultato di una serie di modificazioni, naturali
e antropiche, che si sono susseguite dal- l’inizio del Quaternario, quando il Cansiglio si presentava come un
acrocoro circondato
dal grande
ghiacciaio del Piave e dai ghiacciai minori degli affluenti del Livenza e
del Tagliamento, fino ai
giorni nostri. In funzione
del clima e dei diversi
tipi di terreno che
si sono formati in condizioni geologiche,
morfologiche
e topografiche
differenti, si è evoluto
un paesaggio forestale ricco e composito. Intenso è stato inoltre l’intervento dell’uomo: sia l’estensione che
la composizione della superficie boscata
sono state alterate
in funzione delle diverse esigenze
delle popolazioni locali o delle scelte compiute
dalle amministrazioni che nel tempo hanno
gestito
il patrimonio boschivo.
Il faggio è certamente la specie arborea
che maggiormente caratterizza i boschi del Cansiglio e, a seconda delle condizioni stazionali, può
dare origine a popolamenti puri o misti,
accompagnandosi con altre specie, soprattutto con l’abete bianco.
L’importanza delle faggete viene testimoniata dal nome che Venezia diede a questi boschi dopo esserne entra- ta in possesso,
“Gran Bosco da Reme della Serenissima Repubblica di S. Marco”, in quanto è dai tronchi
di faggio
che venivano
ricavati i remi delle imbarcazioni della flotta veneziana. In epoche più recenti, verso la fine del ‘700, il legno di faggio venne
destinato alla costruzione
di particolari contenitori detti “scatoi”, o
altri utensili, costruiti a mano con grande abilità e destrezza dai Cimbri.
La seconda formazione forestale in ordine di importanza è la pecceta, il bosco di abete rosso. Contrariamente
a quanto succede altrove, questa
si colloca a quote inferiori rispetto
alla faggeta. Per effetto della particolare
morfologia
a catino, infatti, l’a-
ria fredda e umida ristagna
più in basso di quella calda, determinando
il fenomeno dell’inversione termica. Di conseguenza i boschi di latifoglie, che usualmente si
estendono nelle fasce altimetriche inferiori, si sviluppano
a quote più elevate rispetto ai boschi di conifere.
Accanto alla faggeta e alla pecceta
che, nei loro diversi aspetti, costituiscono le tipologie
boschive prevalenti, esistono altre for
mazioni forestali
nel comprensorio Alpago-Cansiglio, meno
frequenti,
ma ugualmente importanti. Fra queste
vanno ricordate:
• gli aceri-frassineti,
boschi misti di latifoglie in cui dominano l’a-
cero di monte (Acer pseudoplatanus L.) e il frassino maggiore (Fraxinus excelsior
L.). In genere occupano
i fondovalle o le aree agricole abbandonate, in una fascia compresa
fra i 400 e gli 800 m s.l.m.;
sono frequenti nelle vallate interne dell’Alpago, su suoli fertili e
con buona disponibilità idrica. In primavera il sottobosco
è
abbellito
dai fiori bianchi
del campanellino (Leucojum vernum
L.), dal dente di cane
(Erythronium dens- canis L.) e dalle bianche
infiorescenze della barba di capra (Aruncus dioicus (Walter) Fernald);
• gli orno-ostrieti, boschi in
cui abbonda il carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.) associato all’orniello
(Fraxinus ornus L.).
Prediligono suoli superficiali e poco
evoluti, ricchi in calcare e poveri d’acqua;
si possono osservare sui versanti meridionali
del Cansiglio e sulle pendici del Dolada;
• i boschi di pino nero austriaco
(Pinus nigra Arnold), più este- si nella vicina regione friulana, ma presenti anche nella Valle del
Piave. Queste formazioni
in Italia sono
presenti
solamente nel versante
meridionale delle Alpi orientali, dove occupano
pendii calcarei
fortemente acclivi ed esposti a correnti
umide, in sta- zioni in cui la scarsa
capacità di ritenuta
idrica del substrato viene compensata dall’umidità atmosferica e dalle precipitazioni. Il sottobosco ospita specie provenienti dai Balcani e ci offre in primavera
il suo aspetto migliore, grazie ai fiori bianco lattei di
Daphne blagayana
Freyer, ai capolini
roseo-purpurei del- l’ambretta
di Ressmann (Knautia ressmannii (Pacher) Briq.) e alle singolari
infiorescenza dell’euforbia della Carnia (Euphorbia triflora Schott, N. et K. ssp. kerneri (Huter)
Poldini).
L’ AMBIENTE ALPINO
È sufficiente osservare le forme e i colori delle
piante d’alta montagna per cogliere la peculiarità di questa flora. A condizioni ambientali severe e talvolta proibitive le piante fanno
fronte con fenomeni di adattamento che
ne permettono la sopravvivenza e ne determinano modificazioni morfologiche e funzionali in certi casi vistose.
Molti sono
i fattori che limitano la crescita e lo sviluppo
delle specie vegetali: in primis
la lunga permanenza della
coltre
nevosa e di basse temperature, che riducono
drasticamente la durata del periodo
vegetativo. La pianta
ha solo pochi mesi a disposizione
per
crescere
e
riprodursi. Anche
le attività dei microrganismi che decompongono la lettiera
risultano rallenta- te e di conseguenza è
disponibile
una
minor
quantità
di
nutrienti nel terreno.
L’aria
pulita e
rarefatta, quasi priva
di pulviscolo e povera di umidità, svolge
uno scarso effetto filtrante:
le radiazioni che giungono al suolo sono perciò più intense
e, soprattutto, con- servano una forte componente ultravioletta,
che può risultare addirittura dannosa.
Un’ulteriore avversità è costituita dal vento sferzante,
che
da un lato
provoca danni meccanici a causa delle particelle di ghiaccio e dei frammenti di sabbia che trasporta, dall’altro dissecca il suolo favorendo fenomeni di stress
idrico per le pian- te.
Nel periodo freddo il pericolo di appassimento è
legato alla cosiddetta “siccità fisiologica”, cioè al fatto che l’acqua
del suolo
c’è ma non è disponibile poiché gelata.
A tutte queste
difficoltà le piante alpine possono far fronte grazie ad una serie di accorgimenti sofisticati.
Innanzitutto ricorrono frequentemente al
fenomeno del nanismo,
hanno
cioè dimensioni ridotte e spuntano dal terreno per pochi centimetri, oppure
assumono forme compatte
con minima
superficie di scambio esposta all’atmosfera. Vengono premiate le piante a cuscinetto (come ad esempio la silene acaule (Silene acaulis
(L.) Jacq.), a rosetta (Saxifraga crustata
Miller) e cespitose (Sesleria varia
(Jacq.) Wettst.). Il vantaggio che ne ricavano
è una minor resistenza agli agenti atmosferici. Di conseguenza non vengono scalzate dal vento e rimangono
completamente coperte dalla neve. Sotto il manto can- dido a ritmi lenti le delicate
gemme fiorali e
fogliari si prepara- no ad una rapida ripresa vegetativa nel momento in cui si sciolgono i ghiacci. Le piante alpine
adottano una serie di trasformazioni contro il pericolo della
disidratazione, che vanno sotto
il termine di xeromorfismo. Viene ridotta la superficie fogliare, fino a foglioline minuscole come nel caso delle androsaci, la cuticola si ispessisce,
come
nel
caso
della coriacea Erica carnea L., vengono sviluppate foglie
carnose e succulente (come nei generi Sedum L. e Sempervivum L.) e compare una fitta peluria di rivestimento che permette di
mantenere una certa umidità
(Leontopodium
alpinum Cass.).
Le piante di montagna
sviluppano un enorme
sistema di radi-
ci, fino a cinque volte maggiore di una pianta
di valle, per faci-
litare l’assunzione dal terreno
delle sostanze nutritizie, spesso molto carenti.
Anche i colori così vivi e sgargianti sono in realtà
effetto di un meccanismo di difesa
contro
le radiazioni
solari nocive: ne sono
responsabili infatti alcuni pigmenti
che le rendono resi- stenti ai violenti raggi UV.
Nelle zone
in quota, battute dai venti gelidi,
si insedia una vegetazione costituita da arbusti
striscianti detti “a spalliera”, piccole piante legnose
a crescita orizzontale, dalle foglie minuscole e indurite.
Dove invece la fitta coltre nevosa
permane per tempi lunghi, sono favoriti gli arbusti con legno elastico, in grado di sopportare il peso del manto candido e gli effetti
delle slavine. L’ambiente
alpino è quindi
popolato da vegetali
minuscoli, ma preziosi e altamente
specializzati.
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