LA TORBIERA
Le torbiere sono zone umide in cui il
terreno, saturo d’acqua, assume un caratteristico colore nerastro e viene
ricoperto da cuscinetti di sfagni e muschi, accompagnati da specie
specializzate con adattamenti particolari.
In Cansiglio troviamo la torbiera di
Palughetto, il “Lamaraz” e una piccola ed interessante torbiera situata nella
zona adiacente al Museo Ecologico “G. Zanardo”, ai bordi del sentiero che porta
al Giardino Botanico.
Le torbiere prendono origine da un
naturale e progressivo processo
di riempimento di antichi laghetti o “lame” ad opera della vegetazione
acquatica che
ha continuato
a svilupparsi fino a coprire completamente gli specchi d’acqua. Le parti morte
e indecomposte delle piante, continuando a depositarsi
sul fondo,
hanno
dato
origine ai
depositi di torba.
La forte
carenza di
ossigeno
che si
viene a creare
in ambiente
acquatico
e
le basse
temperature sono causa dell’accumulo
di detrito
vegetale:
in
queste
condizioni
infatti l’attività dei microrganismi decompositori del terreno che degradano
completamente la sostanza organica
presente nelle parti morte
delle piante rendendola disponibile per un successivo
e ciclico utilizzo da parte dei vegetali
subisce un forte rallentamento. I processi di mineralizzazione non vengono
completati
e la sostanza organica rimane sequestrata nei tessuti vegetali e non può essere riutilizzata. Si viene a creare così un ambiente particolare, asfittico,
acido, povero di nutrienti
e con un contenuto di acqua
nel terreno costantemente elevato. In simili condizioni
compaiono forme di vita con adattamenti
particolari, specializzate per la
sopravvivenza in questo tipo
di habitat
e
spesso
esclusive
di esso. Spiccano
per la
loro originalità le
piante insettivore, che sopperiscono alla carenza nel terreno
di composti azotati mediante
la cattura di insetti. Rappresentanti di questa categoria sono le drosere (Drosera rotundifolia L.), piccole piantine con foglie
curiose,
a forma di cucchiaio
e coperte di vistosi
peli ghiandolari rossi che portano all’a- pice una minuscola
goccia di liquido vischioso. Gli insetti
che si posano sulla lamina fogliare vengono
catturati e trattenuti dai peli tentacolari e successivamente digeriti.
In queste condizioni severe
riescono a sopravvivere anche
i carici (Carex stellulata
Good., Carex lasiocarpa Ehrh., Carex fusca All.), che formano cespi di foglie
sottili, accanto agli eriofori (Eriophorum angustifolium Hon. ed Eriophorum vaginatum L.)
che devono il loro nome generico
-
Eriophorum in latino significa
portatore di peli - ai caratteristici pennacchi candidi che compaiono
all’epoca
della fruttificazione.
LA TORBIERA
Nelle torbe, oltre ai tessuti
vegetali e animali, si depositano anche spore e pollini: anch’es- si non subiscono processi di decomposizione e si conservano in perfetto stato anche per millenni. Il graduale accumulo di sedimenti avviene infatti
contemporanea- mente alla deposizione
di granuli pollini-
ci sulla
zona
superficiale.
La torbiera diventa perciò un vero e proprio
archivio in continuo
aggiornamento in cui sono custodite molte
informazioni di natura diversa.
La parete
esterna dei
granuli
pollinici porta solchi, rilievi,
sculture e ispessimenti
che sono diversi per ogni singola
specie. Questo permette di determinare, per buona parte dei pollini, il genere e la specie di appartenenza con buona
precisione. Inoltre le varie profondità della torbiera corrispondono
a epoche
diverse:
ovviamente gli strati più superficiali sono quelli
di più recente
deposizione,
mentre quelli più profondi
sono i più antichi. Dal calcolo della proporzione
di polline
delle diverse specie
in un dato strato
si può risalire alla composizione floristica e al tipo di vegetazione
esistente nella zona all'epoca
della formazione
dello strato stesso.
La torba è un carbone
fossile,
era chiamata “il carbone dei poveri”, e questa è stata la sua
sfortuna. Fin dall'epoca romana
venne utilizzata come
combustibile domestico o nel settore agricolo. A questo
si aggiungono anche altri fattori di pericolo per la sopravvivenza delle torbiere, quali l'inquinamento delle acque, il drenaggio, il calpestio del bestiame.
Particolarmente dannose sono
anche le opere
di bonifica, di captazione dell’acqua, come pure
il transito di visitatori “bipedi”.
Soltanto una piccola parte
delle torbiere
originariamente presenti
in Europa
si è mantenuta fino
ai giorni nostri.
Questi ambienti meritano
perciò una particolare
attenzione perché dalla loro conservazione dipende anche
la sopravvivenza
delle specie animali e vegetali esclusive di questo tipo di habitat.
Perciò anche
se la loro estensione è
ridotta, l’importanza naturalistica
che
rivestono è primaria
e per tale motivo attualmente vengono tutelate
dalla legge.
Ancor meno diffuse delle acide sono le torbiere neutro-basiche, in genere
alimentate da locali affioramenti di acque
ricche di ioni calcio, che
ne determinano il particolare
chimi- smo. La loro fisionomia
è caratterizzata dalla specie dominante,
la carice di Davall (Carex davalliana
Sm.). Spiccano tra
le zolle formate
da questa ciperacea le infiorescenze dalla lisca
di
Shuttleworth (Typha shuttleworthii Koch et Sonder) e i candidi pennacchi penduli dell’erioforo a foglie larghe (Eriophorum latifolium Hoppe). Alcuni lembi di ridotte
estensioni sono localizzati
nella parte
esterna del
comprensorio del Cansiglio, nella zona dell’Alpago.
LA LAMA
Il Cansiglio non presenta
una rete idrografica superficiale
ben sviluppata a causa del carsismo, per cui, fino ai
primi anni ’60, quando l’acquedotto in questa zona ancora non esisteva, l’approvigionamento idrico costituiva un serio problema. Per ovviare
alla carenza d’acqua,
fondamentale sia per abbeverare
il bestiame
al pascolo
sia per ogni uso domestico,
dalla pulizia personale a quella della casa,
furono
utilizzate le
“lame” o “lamarazzi”. Si tratta di pozze naturali, o scavate, nei pressi delle abitazioni, in cui il ristagno delle acque piovane ha dato origine a piccoli specchi
d’acqua, in genere di forma circolare e di profondità relativamente esigua, che si
potevano prosciugare durante i periodi di siccità. Alcune lame sono
quindi artificiali: per
crearle un tempo si usava foderare il fondo
delle doline (depressioni carsiche) con fogliame o argilla, rendendo-
lo così impermeabile, mentre
attualmente a tale scopo vengo- no impiegati teli di polietilene. Molte lame derivano
invece dal naturale processo erosivo dei calcari durante il quale vengono liberate impurità
che
intasano
le vie di deflusso dell’acqua nelle doline, a cui si aggiungono accumuli
di materiali argillosi
che contribuiscono all’impermeabilizzazione.
Nelle
lame, spostandosi concentricamente dal centro verso l’esterno, si possono distinguere varie zone:
• una parte centrale
libera dalla vegetazione oppure con spe- cie galleggianti come la lenticchia d’acqua
(Lemna minor L.),
o radicanti ma con foglie
galleggianti sul
pelo libero dell’acqua, come la gamberaja comune (Callitriche
palustris L.);
• una fascia occupata
da vegetazione palustre, caratterizzata da specie meno
vincolate
all’ambiente acquatico, con fusti e foglie in
ambiente subaereo, quali la mestolaccia comune
(Alisma plantago-aquatica L.), il gramignone minore (Glyceria plicata Fr.) o la giunchina
comune (Eleocharis palustris
(L.) R. et S.);
• infine una zona umida,
che spesso reca i segni
del
calpestio del bestiame, che ospita specie che vivono
fuori dall’ac- qua, anche se radicano
su terreni fangosi: fra queste
sono
frequenti carici quali la carice
leporina (Carex lepori- na L.) o la
carice rigonfia (Carex rostrata Stokes), il crescione
palu- stre
(Rorippa palustris (L.) Besser) e
i giunchi: il giunco americano
(Juncus tenuis L.) o il giunco comu- ne (Juncus inflexus
L.).
Attualmente gli scopi originari per cui le lame furono
utilizzati sono in parte venuti a mancare
e il loro uso è legato solamente all’abbeveraggio
del bestiame. Tuttavia è rimasta ed enfatizzata la loro importanza dal punto di vista
naturalistico per i peculiari aspetti floristici e
faunistici.
LE FAGGETE
Le faggete, i consorzi
forestali maggiormente diffusi
in Cansiglio,
devono la loro estensione e maestosità
al fatto che qui si trova- no le condizioni climatiche e pedologiche, cioè di terreno,
ottima- li per la crescita
del faggio, Fagus
sylvatica
L.. Specie mesofila, che vive in condizioni climatiche e ambientali intermedie, predilige un clima moderatamente ma costantemente umido, inverni senza
eccessive
diminuzioni di temperatura,
suoli freschi e ben drenati, ed è particolarmente esigente in primavera, nel periodo della ripresa dell’attività vegetativa. Nel momento delicato della schiusa le gemme
e le foglioline vanno facilmente incontro al disseccamento, oltre a temere in modo particolare le gelate tardive. In questo
periodo
perciò la pianta necessita
di un’elevata disponibilità
idrica ed essendo dotata
di radici superficiali non riesce a captare l’acqua negli strati più profondi: le
abbondanti precipitazioni e le frequenti nebbie in primavera
sono quindi
le responsabili
principali della diffusione di questo
tipo di boschi.
Se si rea- lizzano queste
condizioni il faggio diviene
l’elemento incontrastato del bosco ed esclude quasi completamente le altre specie
arboree. Si vengono a formare
così consorzi puri, spesso
coetanei, con fusti colonnari
e slanciati come quelli
che
si possono osservare nei pressi di Vallorch, di particolare maestosità.
Le chiome tendono a formare una compatta copertura fogliare che impedisce la penetrazione di gran
parte della
radiazione solare. Poiché poche piante sono in grado di tollerare
queste condizioni di marcato
ombreggiamento si verifica
una forte selezione sia nei confronti
dello strato arbustivo che di quello erbaceo, mentre ampie aree rimango- no prive di vegetazione e coperte da un’abbondante lettiera
di foglie morte. In primavera, però, vistoso
e di grande effetto è il sottobosco: molte specie erbacee
infatti
presentano una fioritura precoce,
in anticipo
rispetto allo sviluppo delle foglie del faggio e compiono le delicate fasi della fioritura e
della fruttificazione quando la luce solare riesce ancora a filtrare fino al suolo.
Fra queste le più diffuse sono le cardamini (Cardamine pentaphyllos
(L.)
Crantz), C. bulbifera (L.) Crantz, C. enneaphyllos (L.) Crantz), l’acetosella (Oxalis acetosella L.),
l’anemone dei boschi (Anemone nemorosa
L.), il bucaneve
(Galanthus nivalis L.). Le piante che utilizzano questa strategia vengono dette geofite; esse riescono ad anticipare la ripresa vegetativa sfruttando le riserve
contenute negli organi sotterranei.
Nella stagione estiva invece localmente possono predominare le felci (Pteridophyta)
accanto a
sporadiche fioriture
di orchidea
macchiata (Dactylorhiza maculata
(L.) Soò), o di erba lucciola
maggiore (Luzula nivea (L.) Lam. et DC.).
Laddove le condizioni ambientali diventano meno favorevoli
il faggio diminuisce la sua competitività a vantaggio di altre specie: in particolare in
condizioni di maggior continentalità l’abete bianco (Abies alba Miller)
diviene concorrenziale e si formano
foreste miste di latifoglie e
conifere, in cui il rapporto quantitativo fra le specie non è costante,
ma dipende dalle condizioni stazionali e dall’intervento dell’uomo nella gestione
del bosco. A questo consorzio può partecipare sporadicamente anche
l’abete
rosso, Picea excelsa (Lam.) Link. Rispetto alle faggete non solo la composizione di specie
diverse,
ma anche la struttura è differente, perché le chiome,
che si sviluppano a palchi sovrapposti, vengo- no più facilmente attraversate dai raggi solari. Questo permette quindi lo
sviluppo di un sottobosco arbustivo, erbaceo e muscinale che nel caso precedente era assai ridotto.
I pendii con esposizione protetta e soleggiata, con terreno
poco evoluto,
povero di humus
e fortemente
drenante caratterizzano gli aspetti termofili della faggeta, come
si può osservare
in località Lamar, lungo la
strada che da Cordignano porta alla Crosetta. La ridotta disponibilità idrica che si può verificare nel periodo esti-
vo crea condizioni poco favorevoli alla
specie dominante, che si consocia con specie meno
esigenti
nei riguardi del bilancio idrico, quali l’orniello (Fraxinus ornus L.) e il carpino
nero (Ostrya
carpinifolia Scop.).
Il sottobosco in queste
stazioni
è abbellito dalle fioriture di cefalantera maggiore (Cephalanthera longifolia (Hudson) Fritsch), elleboro profumato
(Helleborus odorus
W. et K.) e geranio nodoso
(Geranium nodosum L.).
LA PECCETA
La pecceta si presenta come un bosco con predominanza di
Abete rosso (Picea excelsa (Lam.)
Link) accanto al quale riescono
ad inserirsi anche
l’abete
bianco e il faggio. Nel sottobosco compaiono frequentemente specie
quali il mir- tillo (Vaccinium myrtillus L.), il falso mirtillo (Vaccinium
vitis idaea L.) e le pirole (Moneses uniflora
(L.) A. Gray, Orthilia secunda (L.) House). In Cansiglio l’abete rosso risente della concorrenza
del faggio, le cui esigenze
meglio concordano con l’oceanicità della zona. A differenza di questo, non teme gli eccessivi rigori, né
le gelate tardive o precoci,
quindi la pecceta tende ad occupare
soprattutto
quelle zone in cui le condizioni
sono
più marcatamente continentali, come ad esempio
il margine delle doline, dove il ristagno
di aria fredda limita la dominanza
del faggio relegandolo ad un ruolo secondario
nello strato arbustivo. Tuttavia, caratteristica del peccio
è una
notevole plasticità che
lo rende adattabile
a diverse situazioni
ecologiche e ambientali. Perciò la sua diffusione
è stata favorita dall’uomo,
che lo ha sfruttato
per il legno
particolarmente apprezzato, a discapito dell’abete bianco (Abies alba Miller).
Per questo motivo non
soltanto qui, ma anche
in molte altre zone delle Alpi sono
frequenti gli impianti
artificiali. I popolamenti puri e
coetanei che
si possono osservare nella parte bassa del catino
del Cansiglio, di età compresa
fra i 60 e gli 80 anni sono
quindi frutto della centenaria attività selvicolturale. Le formazioni omogenee, come
queste, in genere
sono
molto più delicate
e
sensibili alle variazioni dei fattori ambientali
e
agli
attacchi parassitari. Alla fine degli anni
‘80, infatti,
si sono verificate
una serie di pullulazioni, cioè
sviluppi
abnormi delle popolazioni di Cephalcia arvensis Panzer, un imenottero fillofago che ha causato
un’ingente defoliazione e con- seguentemente un declino dei boschi colpiti dal parassita. L’infestazione
si estese a macchia d’olio, tanto che in
Cansiglio la superficie coperta dalla pecceta
diminuì di ben
150 ettari. Ad innescarla
paiono essere
stati andamenti cli-
matici anomali, in
particolare
un susseguirsi di
annate siccitose, che avrebbero
alterato i processi che normalmente mantengono costante la
numerosità delle popolazioni di insetti.
Un aspetto
particolare
della pecceta è quello
che orla il fondo delle grandi
doline in Val Menera e in Cornesega, zona in cui la
persistenza di aria
fredda crea condizioni più marcatamente continentali. Per la maggior parte la pecceta di dolina è di impianto artificiale. La densa copertura
delle chiome quando il popolamento è giovane condiziona pesantemente lo sviluppo del sottobosco
erbaceo che risulta assai povero. Col
tempo e in seguito alle avversità atmosferiche, le chiome si diradano e si sviluppa invece uno stra- to arbustivo
ricco di caprifogli
(Lonicera nigra L., L. xylo-
steum L., L. alpigena L.) e
di sambuco
rosso
(Sambucus racemosa L.). Nelle schiarite i tipici elementi delle radure allietano l’occhio con i loro frutti o fiori colorati,
fra cui il lam- pone
(Rubus idaeus
L.), il garofanino maggiore (Epilobium angustifolium L.), il
senecio di Fuchs (Senecio fuchsii Gmelin).
LE
MUGHETE
Le mughete sono
formazioni arbustive diffuse soprattutto sulle Alpi Orientali, su substrati calcarei e dolomitici, in genere
nella fascia compresa tra le vegetazioni boschive arboree
e le prate- rie d’altitudine. Dominatore
incontrastato è il pino mugo (Pinus mugo Turra), detto anche barancio, dai cui strobili – pigne - si
ricava il mugolio, utile per le sue proprietà balsamiche.
Spesso si presentano come boscaglie
chiuse e quasi impenetrabili per il fitto intreccio creato dai fusti prostrati
e dai rami di questa conifera.
Talvolta il mugo può presentarsi in popolamenti
pionieri
che colonizzano cenge e dirupi.
Predilige le rupi, i pendii di
frana detritici e gli sfasciumi incoerenti. In questi habitat è favo- rito nella competizione
con le altre specie perché frugale
e assai resistente
al gelo e alla siccità, ma
soprattutto perché, grazie all’elasticità del suo
legno che si flette senza
spezzarsi sotto il peso del
manto nevoso, è in grado di sopportare
coperture notevoli
e prolungate e addirittura di far fronte alle slavine.
Le mughete svolgono
un’importante azione consolidatrice perché
con i loro rami
contorti e serpeggianti tratte detriti e
ne arrestano
la discesa, innescando così l’evoluzione verso forme di terreno
più mature. Sono forzioni
stabili a dinamismo molto lento.
L’altitudine e la geomorfologia sono
due fattori
chiave nel determinarne i diversi aspetti. Fino
ai 1600 m il mugo si accompagna alle
latifoglie
più ampiamente diffuse nelle cenosi
forestali alle quote inferiori, quali il sorbo montano (Sorbus aria (L.) Crantz.), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia
L.), l’acero
di m.
Il salice
stipolato (Salix appendiculata Vill.), in genere a portamen- to arbustivo.
Questa situazione è destinata a non avere ulteriore evoluzione verso formazioni
strutturalmente più complesse a causa delle condizioni
del suolo.
A quote
superiori, attorno ai 2000 m, su suoli basici, superficiali e molto ricchi in scheletro, ovvero di sassi di una certa dimensione,
il mugo è accompagnato dal rododendro irsuto (Rhododendron hirsutum
L.) che forma nuclei densi negli spazi lasciati
liberi, dando luogo a un fitto strato basso arbustivo, mentre
la sesleria
(Sesleria varia (Jacq.) Wettst.) è fra le poche specie erbacee
presenti.
Nelle zone in cui la minor pendenza permette l’accumulo di terreno, con un conseguente bilancio idrico più favorevole, e le acque meteoriche hanno
causato
il amento dei suoli e la loro decalcificazione, mugo si accompagnano il rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum
L.), eccezionalmente la moretta palustre (Empetrum nigrum), specie propria delle torbiere acide a sfagni. E inoltre i mirtilli: il mirtillo
nero (Vaccinium myrtil- lus L.), rosso (Vaccinium
vitis-idaea L.) e il falso mirtillo (V. gaulterioides L.), specie Indicatrici di terreni acidi. Per una panoramica generale,
salendo da Malga Cate in Val Salatis si possono incontrare via via tutti i tipi decritti. L’importanza delle mughete è riconosciuta dalla
Direttiva Comunitaria “Habitat” 3/CEE), che le considera come habitat di ria importanza,
la cui tutela deve
esser e finalizzata a mantenerne la conservazione.
I SESLERIETI
Le praterie d’altitudine maggiormente diffuse si affermano sui substrati
calcarei e dolo- mitici. La sesleria
comune (Sesleria varia (Jacq.) Wettst.),
graminacea dalle tipiche spighette argentate, e la carice sempreverde
(Carex sempervirens Vill.), che forma cespi fitti ben
ancorati al terreno,
sono le due specie dominanti che edificano un manto erboso verdeggiante.
I seslerieti possono
occupare
ripidi
pendii, spesso conformati a gradoni, esposti a meridione, in cui il suolo è assai drenante perché l’acqua
defluisce velocemente attraverso
la matrice grossolana di cui è formato e si
istaurano perciò condizioni di aridità. La copertura è discontinua, con zolle erbose isolate, frammiste a terreno
nudo.
Se il pendio è molto erto e instabile queste vegetazioni sono destinate a conservare
permanentemente tale frammentarietà.
In situazioni meno proibitive invece possono evolvere
verso stadi più maturi, il cotico erboso si chiude e diviene
uniforme.
Dal punto di vista floristico queste praterie appaiono
molto ricche: attraverso
il feltro denso e compatto di radici di carice e sesleria riescono ad attecchire numerose specie che al momento della
fioritura danno una nota cromatica visto- sa. I capolini violetti
dell’astro delle
Alpi (Aster alpinus
L.) accompagnano il rosa intenso
dei fascetti di
fiori di dafne rosea
(Daphne striata Tratt.) nelle zone in cui il terreno
è meno
profondo
e presenta affioramenti rocciosi;
la primula orecchia
d’orso (Primula auricola
L.), abitante
delle rupi, accompagna la sesleria
fin dalle prime fasi dello sviluppo
della prateria. Altrove
invece spicca il bianco dei fiori dell’anemone narcissino (Anemone narcissiflora L.) o della Pulsatilla alpina (L.) Delarbre, o l’azzurro intenso
della Gentiana verna L. Il seslerieto è anche
l’habitat o della pianta considerata simbolo Dolomiti, la celebre
stella a (Leontopodium alpinum
Cass.). Di origine steppica, questa specie
cresce a sopravvivere anche su rocce nude,
ma
soltanto
in questi ambienti
riesce ad offrire fioriture ampie e abbondanti.
Parecchie specie appetite dal bestiame crescono in queste
praterie, che vengono
perciò utilizzate
per il pascolo. Si cerca tuttavia di mantenere
tale
attività
limiti di sostenibilità, essendo qu
vegetazione sensibile sia all’eccessivo calpestio che al prolungato stazionamento del bestiame.
In assenza di una gestione oculata si rischia di modificarne
la
composizione floristica, con l’eliminazione delle specie maggiormente pascolate e la loro sostituzione con quelle più coriacee o meno
gradite dal punto di vista
organolettico (amare o velenose), nonché alla sua alterazione dal punto di vista
quantitativo (cioè della biomassa prodotta).
I FIRMETI
Sui ghiaioni non ben consolidati, sui
brecciai e sui pendii franosi
si instaurano spesso delle praterie discontinue, chiamate firmeti,
dominate dalla
carice rigida (Carex Host.), una ciperacea con foglie rigide e coriacee, assai resistente alle
b temperature e all’azione dei venti. I firmeti sono tipici della fascia alpina, m possono arrivare
fino a quasi 3000 m, in condizioni di esposizione
particolarmente favorevole
o scender fino a
1500 m,
al limite
del bosco.
Esempi tipici di queste vegetazioni
sono osservabili al di sopra dei 2000 s.l.m., sul Monte Sestier.
Carex firma dà origine a cespi densi e compatti
hanno un ruolo di primo piano nella stabilizzazione dei detriti. Negli stadi iniziali il
firmeto assume una conformazione a gradinate, in cui le zolle di carice
sono frammiste a cespugli nani di salice (Salix retusa L. e
lix reticulata L.)
e di camedrio alpino
ryas octopetala L.), specie pioniere che, on i fitti intrecci
formati dai loro fusti stricianti e dalle
radici, esplicano un’efficace azione consolidatrice. Frequentemente i cuscinetti emisferici di carice vengono
sradicati e trasportati più a valle con la caduta
dei detriti. A mano
a
mano
che
i cuscini di carice si espandono e
si uniscono fra loro la copertura
diviene più continua. Specie
diverse si affermano
nelle varie fasi di evoluzione del firmeto: la genziana di Clusius (Gentiana clusii
Perr. et Song.), dai bellissimi fiori
blu,
la pedicolare sottile (Pedicularis rosea
Wulfen) con le corolle
rosate, la cinquefo-
glie delle Dolomiti
(Potentilla nitida L.), coperta
di peli argen- tati, numerose sassifraghe (Saxifraga caesia L.,
S. moschata Wulfen, S. aiziodes
L.),
la modesta orchidea gramignola (Chamaeorchis alpina L.C.
Rich.), l’aromatico millefoglio di
Clavena (Achillea clavenae L.), l’endemica primula di Wulfen
(Primula
wulfeniana Schott) dal colore intenso.
La dinamica della
prateria a carice rigida è strettamente
connessa
all’evoluzione del
suolo. I terreni che ospitano il firmeto nello stadio iniziale di affermazione sono poco
profondi
e risentono delle caratteristiche del substrato roccioso sottostante:
il contenuto di
carbonati è elevato e l’humus
assai scarso.
Gli stadi stadi successivi corrispondono
ad un suolo
più maturo, che la vegetazione stessa ha contribuito a modificare
favorendo la deacidificazione e l’accumulo di materia organica. In queste
condizioni altre specie
vegetali possono risultare avvantaggiate ed assumere un ruolo
via
via più importante. Si
possono così affermare altri tipi di vegetazione,
più di frequente i seslerieti.
LA VEGETAZIONE DEI GHIAIONI
Ai piedi delle pareti rocciose
si depositano spesso ingenti ammassi di ciottoli e ghiaie,
la cui origine è legata soprattutto
alle alterne fasi di gelo e disgelo che disgregano e frantumano le rocce sovrastanti. Si formano così i grandi conoidi di detrito che
scendono fino a valle.
Si tratta di ambienti veramente avversi, in cui il continuo rotolamento verso valle, l’apporto di materiale
dall’alto, le condizioni di aridità del suolo e la forte irradiazione solare rendono
quasi proibitiva la sopravvivenza dei vegetali. L’acqua percola molto velocemente dalla superficie, ma i depositi fini raccolti
nelle piccole
tasche
che
si formano al di sotto della coltre detritica riescono a mantenere un minimo di umidità e di humus che rendono possibile la vita dei vegetali.
Frequentemente le porzioni aeree delle
piante vengono spezzate o rovinate dai sassi durante i loro movimenti di assestamento,
o addirittura ricoperte da nuove
colate
detritiche. Le piante reagiscono a queste
avversità
rigenerando la parte danneggiata. Una volta che i semi sono riusciti a germogliare negli strati di argilla più profondi, le giovani piantine iniziano
a sviluppare un apparato radicale che diventerà
predominante rispetto alla parte (sub) aerea. Le piante detritiche utilizzano diverse strategie per vegetare
e propagarsi.
Alcune sono ancora con un robusto
fittone e dotate di polloni a crescita
orizzontale, che
di solito vengono ripetutamente coperti dalla
ghiaia, ma sono in grado di produrre giovani getti emergenti
sulla superficie.
Se il disturbo cessa il pollone può
radicar a
sua volta. Altre esili piante,
legate ai ghiaioni più
fini, anche mobili
o
molto
acclivi, crescono sulla
superficie detritica e riescono a radicare anche nei
più piccoli depositi
di materiale argilloso. Fra queste va annoverata l’inconfondibile linaria
alpina (Linaria alpina
(L.) Miller), i cui sottili fusticini portano fiori violetti con la caratteristica fauce aranciata, riuniti
in infiorescenze a racemo.
Altre piante
più robuste, spesso dotate
di caule legnoso, sviluppano
una densa copertura al di sopra delle ghiaie e danno origine a cuscinetti densi. Radicando, esse riescono a consolidare anche
cospicue
estensioni di macereto.
In
genere queste
occupano stazioni con pendenza
poco
accentuata.
Altre piante
sono
dotate
di robustissimo rizoma che si allunga in senso verticale ed emettono polloni che riesco-
no a
perforare la copertura ghiaiosa.
Infine le cosiddette stabilizzatrici sono dotate
di
una
radice
a
fittone
molto robusta che serve
come ancoraggio,
accompagnata da un esteso
sviluppo di radici sottili più superficiali che, alme- no temporaneamente, riescono a bloccare il continuo
movimento
del materiale
sassoso, creando
un minimo di stabilità. In tal modo
si vengono a crea- re le condizioni favorevoli per l’insedia-
mento di altre piante,
più esigenti, ma in grado di formare un vero cotico erboso continuo.
Elemento caratteristico dei ghiaioni calcarei è
l’inconfondibile
papavero
alpino (Papaver rhaeticum Leresche) che, in nei mesi estivi, forma isole gialle con i suoi fiori dorati.
LE VALLETTE NIVALI
Vengono chiamate vallette nivali le conche
o i valanga,
in genere di estensione posti a settentrione, in cui la neve e persiste per
un periodo
molto lungo. Trovandosi
in condizioni riparate, il manto nevoso si
scioglie soltanto a stagione avanzata e di conseguenza il periodo che
le piante hanno a disposizione
per ricostruire le parti vegetative, fiorire, fruttificare e disseminare è ridotto a pochi mesi. Anche le condizioni del suolo, ricco di humus e argilloso non
sono ottimali per
la vita dei vegetali. Di solito, dopo il disgelo,
il defluusso dell’acqua
di fusione avviene molto
lentamente per lo scarso drenaggio, per cui il terreno rimane umido anche d’estate. Il poco calore solare riesce a mala pena a far evaporare l’acqua del suolo, ma non riesce ad innalzarne la temperatura.
Il terreno asfittico e freddo, unitamente alla prolungata
stagione avversa, selezionano
una flora povera assai resistente
e specializzata .Le vallette nivali sono
colonizzate da specie
nane, le
cui ridotte dimensioni permettono un miglior sfruttamento delle scarse risorse disponibili. Tipici sono i salici nani, (Salix reticulata L. e S. retusa L.) che spesso si presentano conso- ciati.
Il salice reticolato, di origine artica, coi suoi fusti stri-
scianti e radicanti, forma fitti tappeti
assai coprenti.
Il salice retuso, dalle foglie lucide e coriacee, invece
presenta fusti
robusti e ascendenti e si conforma
a
spalliera.
Entrambi sono dioici, cioè con i sessi separati. Ciascun esemplare può portare solo fiori o maschili
o femminili.
Per sfruttare
al meglio il breve periodo
vegetativo alcune piante
preparano i boccioli
sotto il manto nevoso,
come la
soldanella minore (Soldanella minima
Hoppe), la cui corolla bianco-rosata
a
forma di
piccola
campana sbuca
dalla neve all’inizio del disgelo. Altre si preparano
con largo anticipo
alla fioritura: già alla fine dell’estate iniziano a produrre le gemme fiorali per la stagione
successiva. Nonostante
queste strategie, di frequente, la moltiplicazione vegetativa è l’unico meccanismo
di riproduzione possibile
perché
i semi difficilmente giungono
a maturazione.
Le vallette
nivali, al di sopra di una certa
quota, si possono ritrovare
in tutto il massiccio, ma esempi significativi sono rinvenibili sul Col Nudo
e
in Val Sperlonga,
parte termina- le della Val Salatis.
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